Sono tornati i paci finti
La storia si ripete con un copione stanco, un anno or sono Santoro provò a
utilizzare, ovviamente con i soliti opportunismi viste le dichiarazioni rese sulla
Nato a pochi giorni dal voto, il tema della pace come argomento principe della campagna elettorale. Issando il vessillo della pace erano convinti di superare lo sbarramento e entrare nel Parlamento (con la solita blindatura dei collegi) ma ottennero una percentuale irrisoria a conferma che da 30
anni a questa parte gran parte di noi si è abituata alla normalità della
guerra.
Se bastasse parlare contro la guerra o la ingiustizia sociale per avere consensi saremmo alla guida del paese.
La realtà è ben più articolata e complessa, va analizzata e studiata a partire dai documenti ufficiali consultando magari i lavori della Commissione Difesa del Senato. Autocelebrazioni o ricette ideologiche di qualunque provenienza siano non servono ma lasciano il tempo che trovano ormai anche le segnalazioni sulla presenza del militarismo, le voci fuori dal coro sono importanti ma alla lunga diventano inutili grilli parlanti, la normalità della guerra è ormai passata e dovremmo evitare che anche l’economia di guerra diventi una scelta obbligata convincendo l'opinione pubblica che salverà tanti posti di lavoro.
Leggere o sentire frasi del tipo “il rifiuto della guerra parte da noi”
conferma la natura ideologica ed individuale di un approccio parziale ed errato
che mette davanti all’analisi economica e oggettiva della realtà i nostri pur
giusti desiderata. E dietro a ordini del giorno presentati nei Comuni e
destinati a confondersi con atti per intitolare le strade a qualche gloria
ufficiale, dietro alle sante alleanze si consuma il fallimento del pacifismo
nostrano e di quel variegato mondo che invoca alleanze vaste poi spendibili anche
in campo elettorale. Ma la esperienza di Santoro dovrebbe avere insegnato che
non basta parlare di pace per ricevere consensi soprattutto se da decenni
partecipi a svariate guerre, se il sindacato non ha mosso un dito per la
riconversione delle produzioni da militari a civili, se pensi di difendere
l’occupazione anche costruendo armi.
Limiti macroscopici del pacifismo nostrano,
autoreferenzialità di alcuni movimenti che non vanno oltre l’obiettivo locale,
assenza di una lettura critica degli scenari Nato e Ue, per questo si sono ignorati i documenti strategici come la Bussola europea.
Siamo davanti alle solite marcette riproposte come forma di
lotta contro la guerra, silenzio assoluto invece attorno alla manovra di
Bilancio europeo, alle prime avvisaglie di quella italiana, ci si inventa
nemici fittizi per non fare i conti con quelli reali. E da qui la tendenza
ormai cronica a non leggere i documenti ufficiali altrimenti sapremmo dell‘aumento
dei militari in ogni forza armata, del progetto di una riserva da cui attingere
e analoga a quella realizzata in Israele, della richiesta di maggiori
investimenti in campo tecnologico e infrastrutturale in sintonia con i piani
regionali della NATO e al nuovo Piano Militare di Difesa Nazionale. E
sapremmo anche quanto importante sia la difesa dell’ambiente se ogni base
militare di nuova costruzione presenta ampio ricorso alle energie rinnovabili,
a nessuno viene in mente di contestare questo ecologismo da giardinaggio
spiegando i dati dell’inquinamento derivanti dalle guerre.
Le nuove linee guida operative in materia di difesa sono da
tempo oggetto di discussione ma seguono intanto direttive già note che vanno
dall’ammodernamento complessivo degli strumenti bellici e delle infrastrutture
fino alle tecnologie per rispondere alle minacce ipersoniche, spaziali e
cibernetiche, dalla attenzione verso le aree strategiche (ad esempio
l’Africa) fino all’utilizzo di tecnologia quantistica e intelligenza
artificiale e a tale scopo urge in tempi rapidi uno specifico reclutamento di
figure altamente specializzate che operino in ambito duale, civile e militare e
ad alto valore scientifico.
E intanto le infrastrutture militari sono confuse con quelle
civili al pari dei processi di innovazione tecnologica, si parla di nuove basi
militari rispettose dell’ambiente e questa veste ecologista del riarmo dovrebbe
essere attenzionata come i principi guida del Ministero ossia prontezza,
reattività e capacità decisionale in tempi ridotti.
E i sindacati oggi in piazza contro il riarmo dovrebbero
qualche parola spenderla sul sistema di carriere e livelli retributivi in
deroga alle norme che regolano il personale statale, favorire nuove assunzioni
di militari, accordare paghe decisamente maggiori rispetto agli altri
dipendenti pubblici, costruire per i militari un welfare allargato e magari prevedere
maggiori sconti sugli anni contributivi a fini previdenziale al fine di mandare
in pensione prima dei 60 anni (ma con il massimo dell’assegno) e procedere con
assunzioni di nuovi professionisti della guerra.
E quanto maggiore sarà
il richiamo alla sicurezza tanto più agevolato sarà il compito dei Governanti
nel giustificare trattamenti di miglior favore alle forze armate creando quel
giusto mix tra paura, rassegnazione e una sorta di senso del dovere che spinge
da tempo gli italiani a perdere ogni valutazione critica dell’esistente, a
fidarsi ciecamente delle narrazioni ufficiali e governative salvo poi sbraitare
dai social.
Sarebbe invece utile riflettere su quante strade potremmo
rifare o quanti ospedali riaprire solo con i fondi destinati al “ringiovanimento
dei ranghi” e alla “valorizzazione delle competenze”, sul perché da 30 anni i
sindacati confederali non abbiano speso una parola sulla riconversione delle
imprese di armi che presto si presenterà come soluzione a tutela della
occupazione
La domanda senza risposta è cosa intendiamo fare davanti a un
esponenziale aumento delle spese militari, alla sempre maggiore confusione
alimentata tra tecnologie duali e civili, alla prossima manovra di Bilancio,
davanti a Riarmo e riconversione dell’economia a fini di guerra.
Ma invece di
rispondere alle domande tanto scomode quanto indispensabili, meglio prepararsi
alla ennesima Perugia Assisi, una marcia non violenta davanti alla violenza
sistematica della guerra e del militarismo mette tutti d’accordo, dagli
antagonisti al centro sinistra. E nel nome della pace si possono anche
giudicare inutili i dubbi sul ruolo della Nato, sui processi autoritari in atto
nella società, una santa alleanza pacifista da spendere domani a fini
elettorali. Perché alla fine chi il potere non lo ha non smette di agognarlo
per andare poi ad assumere decisioni analoghe a quelle degli avversari politici
e prova ne sia la sudditanza del centro sinistra alla Nato, alla economia di
guerra e alla cultura militarista che imperversa nelle scuole di ogni ordine e
grado
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